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Il primo manifesto del comitato di liberazione, che non venne affisso il 26 ma dopo, era firmato da personaggi esultanti per la sconfitta delle armi italiane, non quelle della Repubblica Sociale bensì quelle di prima: affermava infatti quel proclama, ornato all’angolo del tricolore, che la vittoria dell’Italia era cominciata con la sconfitta di El Alamein. Mentre lo leggevo mi tornavano in mente quelli che avevamo perso lungo la strada della guerra. Dove dalla sorte eravamo stati, pensosi dei giuramenti consacrati dai padri, catafratti nell’atmosfera rovente delle corazze. Non erano stati, quelli, giorni senz’alba, inutili e spiccioli, dallo sgradevole sapore dell’ignavia. Non ci eravamo attardati a sparare dalle siepi nella schiena alla gente. In molte battaglie avevamo conteso all’avversario, sempre più armato di noi, il terreno a palmo a palmo, ma soprattutto fra i giardini del diavolo, i campi di mine della malefica piana che si stende a oriente della palificata di El Alamein, avevamo contrastato al nemico, in quel deserto, un granello di sabbia dopo l’altro, molti spendendo anche la loro cenere perché, arsi nei carri, il ghibli la disperdeva. Chissà, pensavo, che dalle ossa calcinate di quei soldati di El Alamein il vento dei cinque giorni che frustando le dune ne scioglie la linea pura, chissà che quel vento non sollevi fantasmi e che non stiano aggirandosi adesso intorno a questo proclama ignobile che leggo all’angolo di corso Venezia coi Bastioni. Cominciava un mondo capovolto, si stanno calpestando i codici dell’onore. Vari uomini politici si sono poi recati e continuano a recarsi a El Alamein: al vento del deserto cancellare l’affronto.

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