L’angolo del Presidente On. Prof. Gaetano Rasi

L’Istituo Biggini invia a tutti gli amici e a coloro che frequentano questo sito i più fervidi auguri di Buona Pasqua, che sono quanto mai appropriati perché intendono far riferimento, oltre che ai sentimenti religiosi, anche a quelli che si riferiscono all’auspicio della resurrezione dell’Italia.

E’ inutile descrivere la situazione attuale, che può essere sinteticamente riassunta nella prospettiva ravvicinata riguardante il crollo del regime politico nato dopo la Seconda guerra mondiale. All’esaurimento dei presupposti politici si aggiunge anche quello della Costituzione varata nel 1948 e ormai rivelatasi incapace di rispondere alle esigenze del popolo italiano inserito in una Unione Europea ancora incapace di essere protagonista nel mondo globalizzato.

Come probabilmente sanno anche gli amici dell’Istituto Biggini, il CESI è impegnato nel preparare un Appello  per aprire una autentica fase costituente e nell’elaborare un Manifesto per la rifondazione dello Stato.

Intanto pubblichiamo qui di seguito una nota pasquale del prof. Carlo Vivaldi Forti del Consiglio Direttivo del CESI.

G.R.

IlvaLa drammatica  eventualità della chiusura dell’acciaieria di Taranto, l’ILVA,  é paradigmatica dell’allucinante mancanza in Italia –  non solo da ora ! – di una politica economica, in particolare della politica industriale.

La patetica solitaria presenza ieri, in aula alla Camera, dai banchi vuoti del Governo del (ripeto) solo ministro dell’Ambiente, Clini, ad illustrare la vicenda, quando invece avrebbe dovuto esserci  – e spiegare fatti, decisioni, prospettive e programmi – il ministro dello Sviluppo (?) Economico, Passera, ha sottolineato uno dei più bassi gradini della mancanza di una politica economica.

Va ricordato a questo riguardo che la nuova intitolazione del Ministero diretto dall’ineffabile Corrado Passera, si riferisce a quello che è tuttora il contenuto (e prima ne era anche il titolo esplicito) di Ministero dell’Industria, del Commercio, dell’Artigianato e del Turismo, insomma delle attività direttamente produttive dell’intero sistema economico nazionale. Ma di ciò non si tiene affatto conto.

Insomma non può non essere rilevato il vergognoso disimpegno, oltre che del Governo in carica (che pretende di giustificare la propria esistenza in base alle esibite competenze tecniche ed economiche), di un’intera classe politica nei confronti dell’immediato futuro dell’Italia, confermando, inoltre, l’irresponsabile ignoranza dei più elementari principi di come va governata una moderna economia industriale obbligata al quotidiano confronto con le economie europee e con il resto del mondo.

Tuttavia non vi è soltanto questo aspetto che va rilevato. Vi è pure, e in misura clamorosa, il fatto che tutta la questione viene dibattuta con estrema superficialità  esasperando, uno o tutti insieme, i tre elementi conflittuali che la caratterizzano e che sono soltanto l’esito e non la causa del problema.

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L’On. Prof. Gaetano Rasi, oltre ad essere ormai da molti anni il Presidente dell’Istituto Biggini, è anche Presidente della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice e Presidente del Cesi, Centro Nazionale di Studi Politici.
Autore di numerosi libri e saggi, pubblica regolarmente articoli sul Secolo d’Italia.

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Logo FiatDi Gaetano Rasi

L’incontro di sabato 22 settembre tra la Fiat e il Governo ha sottolineato in modo stridente due fatti assolutamente negativi: Primo che il Governo manca di politica economica ed in questo caso di politica industriale per cui l’obiettivo della ripresa per superare la crisi in realtà non è nelle capacità e nemmeno nelle intenzioni vere del Governo stesso; in secondo luogo che anche le forze politiche che lo sostengono e che si accingono alle elezioni di primavera sono pure esse prive di indirizzi e di programmi.

In particolare si fa sentire il vuoto da parte degli esponenti exAN all’interno del Pdl che pure hanno alle spalle dottrina e progetti ben in grado di orientare in forma attuale una politica di sviluppo dopo l’assenza legata alle pratica della ideologia liberal-qualunquista.

Tuttavia anche organi di informazione, che finora hanno tenuto posizioni sostanzialmente disimpegnate in nome dell’automatismo miracolistico del mercato, se ne stanno accorgendo.

Massimo Mucchetti sul Corriere della Sera di domenica 23 settembre, dopo aver preso atto della inconsistenza dell’esito di un incontro – durato cinque ore e mezzo! – tra l’a.d. Marchionne e del presidente Elkann, da un lato, e il premier Monti ed il ministro dello Sviluppo (?!) economico dall’altro, constata che «il comunicato congiunto Governo-Fiat, che in questi casi è ciò che vale perché impegna i firmatari, non prende alcun impegno».

Ma ciò che più va sottolineato è quanto, sempre Mucchetti, scrive laddove riconosce che il caso Fiat «fa rumore … perché la Fiat era stata presentata come l’alfiere della modernità … e perché a rischio è ormai un intero storico settore industriale come quello dell’auto».

Va, infatti, tenuto conto non solo della produzione diretta, ma anche di tutto l’indotto: ben il 70% della produzione è esterna agli stabilimenti Fiat.

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il lavoro è partecipazioneIn un periodo nel quale mancano veri progetti e programmi di politica sociale ed economica esce un interessante e documentato volume di articolata e attualissima proposta (Mario Bozzi Sentieri – Ettore Rivabella, Lavoro è partecipazione, Settimo Sigillo, Roma 2012, € 10,00).

Si tratta, come dice anche il sottotitolo, di un ” Manifesto per una nuova strategia di Azione Sindacale”. Significativo, poi, che la prefazione sia di Giovanni Centrella, Segretario Generale dell’UGL, ossia di quella Confederazione che non solo ha nella sua storia presenze ed elaborazioni di forte rilievo, ma che anche ora segue attentamente le gravi vicende italiane ed europee senza essere condizionata dal tardo classismo che appesantisce, oppure addirittura neutralizza, l’azione della CGIL, della CISL e della UIL.

Scrive tra l’altro Centrella che «l’attuazione del principio costituzionale riguardante la partecipazione dei lavoratori e la condivisione con loro delle responsabilità, delle scelte, delle dinamiche e degli utili, può dar loro un nuovo slancio a uno sviluppo che abbia come presupposto la sintesi tra le istanze sociali e economiche che costituiscono il binomio caratterizzante la produzione e il mercato».

L’articolazione del volume si svolge secondo uno schema logico che conduce il lettore ad addentrarsi nella materia in maniera convincente e lo porta ad essere aderente alla tesi di fondo. Dai capitoli che tratteggiano i nuovi scenari e quindi i cambiamenti in corso nella scena mondiale si passa ad affrontare la tematica riguardante la nuova cultura che deve caratterizzare una diversa socialità. Quindi – e per il lettore diventa il tema centrale – si afferma la necessità di un interventismo statale moderno fondato su una legittimità democratica di nuova concezione. Di qui la richiesta di un adeguamento della azione sindacale fondato su una battaglia esplicita per la partecipazione istituzionalizzata sia nelle attività produttive che in quelle della rappresentanza politica.

Gli Autori affrontano con capacità interpretativa coerente le problematiche del lavoro che sono sul tappeto, tenendo sempre presenti le correlazioni con le innovazioni tecnologiche pervasive e con le dimensioni globali delle competizioni mondiali. Soprattutto non si lasciano intimorire dalla informazione, spesso fuorviante, dei mezzi di comunicazione asserviti in gran parte ai potentati finanziari speculativi: l’economia reale – essi affermano giustamente – è il vero terreno di confronto e la base imprescindibile per risolvere la crisi generale e riprendere lo sviluppo.

Tra gli argomenti sui quali riteniamo di dover richiamare l’attenzione, oltre naturalmente quelli specifici relativi alla cogestione e alla nuova caratterizzazione che deve avere una diversa attività sindacale, vi è quello riguardante il capitolo dal titolo “Ripensare la democrazia”.

«Bisogna – scrivono Bozzi Sentieri e Rivabella – prendere atto che la democrazia, quale almeno storicamente si è manifestata nelle sue forme borghesi ed ancora oggi ci appare, è, nella sua essenza, il regno dell’individualismo e dell’astrattismo (Joseph De Maistre); è la fabbrica dell’incompetenza degli uomini politici (René Guénon); è il luogo deputato della partitocrazia (Robert Michels); in essa avviene il dominio dell’oligarchia capitalistica sulla realtà politica (Julius Evola); nella democrazia elettorale, condizionante è la capacità di agire sull’ingenuità della masse attraverso l’aiuto della stampa influente e di “una infinità di astuzie”(George Sorel)».

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Emblematico  e, in un certo modo riassuntivo di tutti, è stato il commento di Massimo Franco – sul Corriere della Sera di martedì 8 maggio, a proposito dell’interpretazione del voto delle elezioni amministrative –  fondato sulla preoccupazione circa le sorti del governo Monti.  La conclusione dell’analisi è stata la seguente: «Da ieri… Monti,  da scudo dei partiti rischia di diventarne il bersaglio. Ma non è detto che la classe politica si risollevi picconando il governo dei tecnici. Anzi, potrebbe distruggere il suo ultimo alibi».
Siamo d’accordo, ma  in un senso diverso, forse, da quello temuto dal valido commentatore, il quale aveva peraltro  nel corpo dell’articolo fatto riferimento ad espressioni come «voglia di spazzare via un sistema incapace di riformarsi», ad un «istinto suicida dei partiti», nonché «alla solitudine dei partiti del fronte moderato», al «tramonto della leadership berlusconiana» e al fatto che il «Terzo polo non è percepito come un’alternativa».
Non riteniamo di entrare in tutti i concetti che sono stati espressi, ma appare chiaro che, oltre la parentesi dell’attuale “governo tecnico”, è necessario riflettere subito sui contenuti dei temi per le  elezioni politiche del prossimo anno, e nello stesso tempo decidere la natura che la nuova legislatura dovrebbe avere.
La preoccupazione è quella che essa non sia l’inizio della Terza, ma la coda della Seconda Repubblica.
Con le elezioni del 1994 avrebbe dovuto nascere la Seconda Repubblica, caratterizzata dal nuovo sistema: anzitutto le alleanze si fanno prima e non dopo le elezioni e ciascuno s’impegna a governare secondo il programma e con gli alleati che si sono presentati alle urne; in secondo luogo, con l’indicazione, da parte delle forze contrapposte, già in sede elettorale, di chi sarebbe stato il Capo del Governo. Insomma, oltre che un passo avanti nella chiarezza democratica, anche un passo avanti nella governabilità e quindi nella efficienza gestionale.
Ma tutto questo non è stato travasato nel corso di quasi un ventennio in una riforma costituzionale appunto in senso antipartitocratico e presidenzialistico.
Avvicinandosi, quindi, un nuovo confronto elettorale e nell’evidente incapacità degli attuali partiti nel concordare una diversa legge elettorale, si rischia di perpetuare un sistema di debolezza invece che di efficienza.
L’auspicio è quello che nei prossimi mesi, anche facendo tesoro della recente esperienza elettorale amministrativa, si prospetti una legislatura costituente che ponga rimedio alle debolezze della Seconda Repubblica e apra veramente una nuova fase. Quella di una nuova Costituzione nella quale sia esplicitamente prevista da parte del popolo la scelta del premier, e la sua nomina non sia lasciata ad un Presidente della Repubblica, privo d’investitura popolare diretta, così come è avvenuto dopo le dimissioni di Berlusconi.

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Impegnati nelle imminenti elezioni amministrative e in preparazione delle elezioni politiche del prossimo anno, il mondo politico italiano e la stampa d’opinione  concentrano naturalmente l’attenzione sui problemi interni  e, per quanto riguarda l’Unione Europea, sui riflessi che l’azione dei suoi organismi possono avere sul nostro Paese.
Tuttavia, subito dopo l’esito delle elezioni amministrative, e nella prospettiva di quelle politiche per il “dopo Monti”, sarà necessario affrontare il problema del futuro della U.E. e in particolare dell’euro non solo come moneta comune.
Trascuriamo per ora le ripercussioni  dell’esito delle elezioni presidenziali francesi, ma deve essere chiaro che comunque l’Italia non avrà né ripresa economica né prospettive di sviluppo se non sarà tra i protagonisti delle politica europea e questa non sarà posta in grado di essere protagonista nella politica mondiale.
Lo strappo di Jean-Claude Juncker  nel lasciare anzitempo la guida di presidente dell’Eurogruppo (il centro di coordinamento dei ministri dell’Economia e delle Finanze dei 17 Stati dell’UE che adottano l’euro) deve essere la spinta decisiva per la prossima politica del nostro Paese.
Insomma deve essere un esempio da non trascurare.
«Lascio perché sono stanco delle ingerenze franco-tedesche » ha detto Juncker l’altro giorno nel corso di una conferenza ad Amburgo. Va sottolineato che la situazione insopportabile nasce,  prima della crisi finanziaria del 2008,  già nel 2003 quando Francia e Germania – allora guidate da Gerhard Schroeder e Jaques Chirac – decisero unilateralmente di violare le regole europee del patto  paritario di unione.
Già allora si scoprì che l’Europa per due delle maggiori potenze, la Germania e la Francia, non era quella figura costituzionale nuova definita  “una comunità di diritto“ come concetto voluto dai fondatori ed elaborato  nella  dottrina costituzionale, ossia una unione dove tutti sono uguali indipendentemente dalla loro dimensione e dalla loro capacità economica.
Si trattava infatti di una «unione di nazioni europee», strutturalmente diversa da quella federale, e quindi di una unità nel rispetto delle diversità nazionali e come tali riconosciute e ritenute una caratteristica civile unica al mondo. E tuttavia legate da una solidarietà  in grado di essere forte verso l’esterno e coesa all’interno.
Invece l’egoismo e la miopia hanno prevalso anche a causa delle  preoccupazioni elettoralistiche degli esponenti politici  francesi e tedeschi di avere all’interno dei loro Stati consensi e voti particolaristici.
Il patto franco-tedesco di Deauville nell’ottobre del 2010 , in sede di riunione dell’Eurogruppo riunito a Lussemburgo per discutere la crisi dell’euro, è stato la conferma di voler decidere solo nel proprio interesse le sorti degli altri partecipanti in difficoltà.

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Di Gaetano Rasi

A cinque mesi dalla nascita del Governo Monti, appare chiara la sua caratteristica: quella di essere completamente sprovvisto del contenuto principale  della politica economica: le misure per lo sviluppo del Paese. Nel caso specifico attuale della sua crescita dopo cinque anni di crisi.
Il presidente della Corte dei Conti, Luigi Giampaolino, nell’audizione avventa l’altro giorno alla Camera sul Def, il Documento economico e finanziario, ha detto esplicitamente che «l’urgenza del riequilibrio dei conti si è tradotta inevitabilmente nel ricorso al prelievo fiscale, forzando una pressione già fuori linea nel confronto europeo e generando le condizioni per ulteriori effetti recessivi».
Si tratta di una chiara denuncia  dell’assenza della parte costruttiva di una manovra che per essere completa deve prevedere, uniti in unica manovra,  il prelevamento fiscale e la riduzione della spesa pubblica insieme con gli investimenti pubblici e privati per l’aumento della produzione e dei redditi.
Insomma non vi è alcun collegamento strutturale tra la politica del rigore e quella della crescita.
Se la prima, ossia la politica del rigore, non può non consistere in una razionalizzazione (in diminuzione) della spesa pubblica e una accentuazione (equilibrata) dell’imposizione fiscale, la seconda, ossia la politica della crescita, deve prevedere contemporaneamente e con la stessa determinazione un energico programma  di misure volte  allo sviluppo.
Qualsiasi politica che non preveda quest’ultimo aspetto è destinata inevitabilmente a far fallire il riequilibrio dei conti ed aggravare, senza rimedio, la spirale recessiva.
I dati parlano chiaro. Tra il 2007 e il 2012, ossia in cinque anni, la produzione nazionale è scesa del 6%; il reddito disponibile delle famiglie, in termini reali, è diminuito del 9%; i posti di lavoro perduti sono oltre 400 mila.
La preoccupazione primaria quindi per qualsiasi governo, che voglia restare protagonista dentro l’Unione Europea, non può essere che quello della ripresa della produzione, dell’annullamento della perdita del valore d’acquisto dei redditi, del recupero dei posti di lavoro perduti. Bisogna creare prospettive per nuova occupazione sia del fattore capitale che del fattore lavoro da cui derivare capacità di produzione e di redditi.

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Di Gaetano Rasi

Vi sono due  punti nevralgici nella crisi economica attuale: da un lato l’azione fuorviante delle società di rating per quanto si riferisce al grado di rischio dei titoli obbligazionari pubblici e privati posti sul mercato; dall’altro la certificazione molte volte menzognera o errata delle società di revisione dei bilanci che dovrebbero invece essere a garanzia del buon stato di salute delle imprese che hanno quotazioni in Borsa.
Per quanto riguarda le società di rating esiste già una abbondante letteratura critica basata sul fatto che esse sono possedute dai grandi centri di speculazione finanziaria i quali hanno evidenti interessi a manovrare il mercato e quindi le quotazioni. Di qui la richiesta generale di affidare i giudizi di credibilità dei titoli piuttosto ad enti pubblici che a soggetti privati (per esempio la ventilata società di rating dell’UE).
Invece non è analizzata in maniera sufficientemente chiarificatrice l’attività  delle società di certificazione dei bilanci.
Come è noto, sia in dottrina che nell’analisi economica, la revisione ha la funzione di fornire un servizio di controllo sui conti della società revisionata e, contestualmente, costituisce per fornitori, azionisti, clienti, investitori e finanziatori la garanzia che la stessa società di cui si è certificato il bilancio non andrà nel breve termine incontro a crisi finanziarie. Ma troppe volte non è stato così. Oggi, comunque il problema è ulteriormente incombente perché ad esse si vorrebbe affidare anche la certificazione dei bilanci dei partiti. Ma procediamo per gradi.
Negli Stati Uniti, solo a titolo di esempio vale ricordare, prima il caso della Enron (che ha trascinato nel fallimento anche l’antica, e a suo tempo prestigiosa, società di certificazione Arthur Andersen), e poi il caso del fallimento della Banca Lheman Brothers, che ha posto in rilievo l’inconsistenza dei mutui subprime, e che ha innescato la crisi diventata mondiale  e nella quale ancora oggi siamo coinvolti.  Altri casi clamorosi, per esempio, si sono avuti  in Giappone come quello Olympus, dove il management ha dovuto pubblicamente ammettere di aver occultato per oltre 20 anni perdite per più di un miliardo di dollari, mentre i revisori dei bilanci, succedutosi nel tempo, non se ne erano affatto accorti. E ancora recentemente in Svizzera  una società di revisione, che aveva certificato come sani i bilanci della BCGE (Banca Cantonale di Ginevra), ha dovuto pagare in sede di sopravvenuto fallimento della stessa, 110 milioni di franchi a titolo di risarcimento per i danni causati.

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Crisi del partito come istituto  costituzionale o crisi dei partiti come attualmente sono strutturati?  Tutti sappiamo che la Costituzione in vigore in Italia non parla dei partiti come istituzione attraverso i quali si forma la classe dirigente  rappresentativa dei cittadini. L’articolo 49, l’unico che usa il termine “partito”,  dice  soltanto che «tutti  i cittadini hanno il diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale».

La formulazione non potrebbe essere più generica di così ed infatti, le diverse leggi elettorali, varate dal 1948 (data di entrata in vigore della Costituzione) in poi,  non hanno nella realtà effettiva regolato il meccanismo con il quale il popolo esprime i propri rappresentanti in Parlamento.

Di volta in volta le leggi elettorali hanno solo modificato la maniera della presenza dei partiti  nelle due Camere ed inoltre tali legislazioni non si sono mai occupate dei sistemi  di selezione dei rappresentanti del popolo.

Questo compito è sempre stato lasciato alle oligarchie che hanno dominato i singoli partiti. Ne è derivato che  a determinare la formazione e quindi ad esprimere la volontà  del Parlamento è stata solo una  casta di cooptanti  che ha qualificato il regime politico vigente in l’Italia  come una partitocrazia invece che come una democrazia.

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