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Di Gaetano Rasi, il Secolo d’Italia

Tra poco sono 5 mesi che si è insediato il Governo Monti e non si intravede una vera politica economica di ripresa, l’unica che sia in grado di far fronte agli impegni finanziari che gravano sull’economia italiana.
L’aver puntato tutto sulla politica fiscale, sul tentativo di aumentare la concorrenza e sul finanziamento del debito pubblico, ha innescato una recrudescenza recessiva che tende a prolungarsi e ad accentuarsi (la cosiddetta riforma del rapporto di lavoro, tuttora non definita, resta un roboante, ma insignificante fattore di ripresa).
E’ evidente che una generale diminuzione dei redditi da spendere ed un contemporaneo aumento dei prezzi non può che generare una ulteriore caduta del PIL cui si aggiunge – posta in evidenza in questi giorni dalla stampa – la contrazione dei prestiti da parte del sistema bancario verso le imprese e le famiglie.
I dati della Banca d’Italia ci dicono che da dicembre a gennaio il credito agli italiani residenti si è ridotto di 30 miliardi. La giustificazione della mancata (ma è proprio vero?)  richiesta di prestiti viene giustificata con una caduta della produzione per cui le imprese – non prevedendo nuove commesse, né nuove iniziative – riducono la domanda di disponibilità finanziaria proveniente dal sistema bancario.
Ma circolano anche altre spiegazioni. Una prima è: “Bisogna aspettare che la liquidità proveniente dalla BCE (prestiti all’1% d’interesse della durata di 3 anni) arrivi all’economia reale”.
Una seconda spiegazione è questa: “Questo ritardo nel finanziare le attività direttamente produttive è dovuto al fatto che le banche prima di tutto acquistano Titoli di Stato guadagnando sul differenziale di interessi e quindi si arricchiscono con poca fatica”. Una terza spiegazione: “Questo comportamento delle banche è giustificato dall’applicazione delle regole dell’accordo “Basilea 3”, le quali – per salvare il loro equilibrio di bilancio ed evitare future e crisi di liquidità per la possibile insolvenza dei debitori- impongono alle banche di aumentare il loro patrimonio “fermo”.

Insomma tutti argomenti validi nei singoli aspetti, ma soltanto descrittivi di una politica monetaria e finanziaria miope e legata alla rigidità ideologica che vuole la ripresa economica solo opera della automatica e spontanea iniziativa dei singoli capitalisti.
L’intervento pubblico viene aborrito e viene, con semplicioneria, chiamato “statalismo”, anche quando non è inteso ad una programmazione quantitativa della produzione e della distribuzione dei beni (tipo sistema sovietico), ma invece deve essere, secondo logica concreta, intervento non sul mercato dei beni fungibili, ma solo sugli investimenti per l’efficienza dei servizi pubblici alle imprese e alle famiglie.
Dunque, bisogna che venga affrontata una politica economica globale, sia attraverso regole di ciò che deve essere il sistema finanziario dopo la crisi, sia di come le banche debbano assolvere la loro funzione fondamentale di dare credito alle attività produttive; e ancor di più impostare un programma organico di finanziamento degli investimenti nelle strutture pubbliche senza con questo, ampliare il debito dello Stato.
In sede europea a quest’ultimo proposito si  è rimasti al concetto del “fondo salva-Stati” e non si è portato avanti il discorso relativo alla emissione di bond europei per finanziare le attività produttive. Analogamente una miopia del genere colpisce l’Italia perché non si mobilitano, attraverso titoli obbligazionari gestiti da un Ente pubblico fuori dal bilancio dello Stato per effettuare investimenti che finanzino l’ammodernamento delle strutture pubbliche  e quindi  tutto l’indotto che può rimettere in moto la domanda globale (consumi dei cittadini, e investimenti delle imprese).
Significativo è l’intervento dell’altro giorno sul maggior giornale economico italiano (ma anche europeo) Il Sole 24 Ore del 3 aprile 2012, da parte del prof. Marco Onado, il quale ha scritto testualmente « L’Italia ha una storica tradizione da rinverdire: negli anni 30 le riforme di Beneduce riuscirono … ad accelerare il processo d’investimento in un Paese povero di capitali e ricco di dissesti bancari. Perché non provare a ripetere l’esperienza d’allora, utilizzando la Cassa Depositi e Prestiti e i suoi strumenti d’intervento o altri istituti?».
Il concetto espresso dal prof. Onado in sostanza è il seguente: dovrebbe essere ormai dimostrato che per uscire dalla crisi attraverso un’economia in crescita, e non con una depressione da tassazione diretta ed indiretta (la benzina è ormai a 2 euro al litro!), «occorrono soluzioni forti ed innovative, non terapie sintomatiche come quelle usate finora». Gli stessi governatori della Banca d’Italia, prima Mario Draghi e poi Ignazio Visco, hanno messo in evidenza l’importanza di forme innovative per aiutare il nostro sistema di piccole e medie imprese.
Non diversamente ci eravamo espressi su queste colonne (Secolo d’Italia 22 marzo 2012) con il nostro articolo “Investimenti e modernità, vie d’uscita dalla crisi”, quando avevamo detto che il volano della ripresa dello sviluppo avrebbe dovuto riguardare per l’Italia un partenariato pubblico e privato rivolto a mobilitare somme da investire in opere pubbliche e facevamo riferimento appunto alla mobilitazione della Cassa Deposi e Prestiti per farne un Istituto di finanziamento analogamente all’azione dell’IRI degli anni 30.
Il dibattito politico invece attualmente è bloccato dalle piccole contese all’interno dei partiti o all’interno delle coalizioni che si preoccupano,ora delle elezioni amministrative e soprattutto in previsione delle elezioni politiche del prossimo anno.
Nessun impegno di approfondimento e di determinazione ha luogo per quanto riguarda la politica economica di ripresa.
Colpisce a questo proposito la dichiarazione del Presidente Monti (La Stampa del 4 aprile) secondo la quale la credibilità dell’Italia e quindi la possibilità d’investimenti esteri nel nostro Paese è legata alla  “prevedibilità”circa l’evoluzione della nostra economia.
Non sappiamo se il prof. Mario Monti si renda conto di che cosa implichi parlare di prevedibilità  per la stabilità e il progresso di un sistema economico.
La prevedibilità nel giudizio di chi è esterno al sistema e quindi può essere invogliato a farvi investimenti è la stessa prevedibilità che deve essere programmata dai pubblici poteri all’interno di quel sistema.
In altre parole, Monti deve svolgere completamente il suo pensiero e affrontare il problema di una programmazione di indirizzi e di strutturazioni produttive e distributive per dare sostanza ad una politica economica di sviluppo.
Non si può inoltre non sottolineare la limitatezza di una concezione che – come dice nell’intervista sopracitata – «Mi rendo conto che sarebbe bello avere un maggiore tasso di crescita economica, non solo per il benessere dei cittadini italiani e per avere più occupazione ma anche perché questo renderebbe il nostro mercato interno più appetibile per le imprese straniere».
Per essere contenuti nei giudizi troviamo veramente curiosa questa concezione che vede lo sviluppo nazionale nella svendita ai capitali stranieri delle nostre imprese. Non lo assale il dubbio che fare dell’economia italiana una sudditanza di sistemi esteri,  ed in questo caso addirittura extraeuropei, ipoteca il futuro delle nuove generazioni e deprime lo stato d’animo imprenditoriale di quelle presenti?
E’ su questo terreno che si proverà d’ora in poi la validità del suo Governo e quindi l’utilità che esso giunga alla scadenza naturale della legislatura. Diversamente bisognerà che le forze politiche che in Parlamento lo sostengono rivedano le loro posizioni. In ogni caso rimane necessario che da parte delle forze di centrodestra s’imposti una politica economica programmatica come base per la campagna elettorale e come impegno per la successiva politica di governo.

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