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Logo FiatDi Gaetano Rasi

L’incontro di sabato 22 settembre tra la Fiat e il Governo ha sottolineato in modo stridente due fatti assolutamente negativi: Primo che il Governo manca di politica economica ed in questo caso di politica industriale per cui l’obiettivo della ripresa per superare la crisi in realtà non è nelle capacità e nemmeno nelle intenzioni vere del Governo stesso; in secondo luogo che anche le forze politiche che lo sostengono e che si accingono alle elezioni di primavera sono pure esse prive di indirizzi e di programmi.

In particolare si fa sentire il vuoto da parte degli esponenti exAN all’interno del Pdl che pure hanno alle spalle dottrina e progetti ben in grado di orientare in forma attuale una politica di sviluppo dopo l’assenza legata alle pratica della ideologia liberal-qualunquista.

Tuttavia anche organi di informazione, che finora hanno tenuto posizioni sostanzialmente disimpegnate in nome dell’automatismo miracolistico del mercato, se ne stanno accorgendo.

Massimo Mucchetti sul Corriere della Sera di domenica 23 settembre, dopo aver preso atto della inconsistenza dell’esito di un incontro – durato cinque ore e mezzo! – tra l’a.d. Marchionne e del presidente Elkann, da un lato, e il premier Monti ed il ministro dello Sviluppo (?!) economico dall’altro, constata che «il comunicato congiunto Governo-Fiat, che in questi casi è ciò che vale perché impegna i firmatari, non prende alcun impegno».

Ma ciò che più va sottolineato è quanto, sempre Mucchetti, scrive laddove riconosce che il caso Fiat «fa rumore … perché la Fiat era stata presentata come l’alfiere della modernità … e perché a rischio è ormai un intero storico settore industriale come quello dell’auto».

Va, infatti, tenuto conto non solo della produzione diretta, ma anche di tutto l’indotto: ben il 70% della produzione è esterna agli stabilimenti Fiat.

Il ministro Passera, che dovrebbe avere compiti e responsabilità come ministro dell’industria è del tutto passivo e dimostra di essere, oltre che incapace, anche convinto che sia una buona politica “non intervenire” e si affida ad inconcludenti future tavole di incontri sindacali.

Ed infatti il giornalista del Corriere della Sera mette in evidenza che «se la Fiat va bene in Brasile – come ha affermato Marchionne –perché là riceve cospicui aiuti di Stato e non può andare bene in Italia e in Europa perché questi aiuti sono proibiti dalle regole anti-trust dovremmo tutti aprire una riflessione».

Qui sta il punto centrale del problema: la “riflessione” vuol dire che si constata il fallimento di una politica di vile neutralità nei confronti delle vicende economiche determinate dall’uso truffaldino della libertà di speculazione finanziaria che ha determinato la crisi dell’economia reale.

Se il ministro italiano dell’industria (dizione coperta dall’ipocrita denominazione “Sviluppo economico” introdotta prima del governo Berlusconi dall’allora ministro Bassanini) non avanza delle proposte adeguate è ancor più necessario che venga affrontato subito e con coraggio, da parte di chi oggi non ha responsabilità di governo, una proposta di radicale cambiamento di rotta rispetto all’attuale indifferenza strategica e programmatica.

E’ venuta l’ora che si vada al di là dei deboli incentivi basati sulla detassazione e sui finanziamenti tramite un sistema bancario –drogato dalla speculazione finanziaria e spaventato dai rischi passati – per affrontare risolutamente una politica rivolta all’assunzione più diretta negli indirizzi e nella operatività delle grandi imprese che sono essenziali per l’economia nazionale. Ci riferiamo in questo caso alla Fiat, ma analogo ragionamento deve essere fatto per l’industria siderurgica, dell’alluminio e di quella mineraria (è chiaro il riferimento all’assenza di politica industriale per quanto riguardano i casi dell’ILVA e dell’Alcoa, nonché del carbone del Sulcis).

Lo Stato italiano, dopo aver demolito sciaguratamente strumenti di interventismo positivo per regolamentare ed indirizzare i mercati (è ora di chiarire la differenza tra il concetto astratto di mercato e quello concreto della diversità che esiste tra i mercati dei servizi, delle infrastrutture, delle merci fungibili, dei prodotti immateriali) oggi ha ancora la possibilità di servirsi di strumenti fuori bilancio dello Stato come la Cassa Depositi e Prestiti adeguatamente ristrutturata.

Ovviamente non si tratta dell’interventismo rivolto alla pianificazione coercitiva di tipo sovietico – che in realtà aveva trasformato l’economia produttiva in amministrazione collettivistica – ma di un’opera di oculata selezione basata su una sensibilità responsabile sia nei confronti dei momenti di crisi, sia in linea con le trasformazioni derivanti dalle innovazioni e dalla evoluzione della consapevolezza sociale dei singoli, delle famiglie e dei gruppi.

Ebbene, se Marchionne e l’attuale pallido esponente della residua dinastia degli Agnelli pensano di fare investimenti solo quando il mercato riprenderà a tirare è come quello che dice di voler prendere l’aspirina solo quando il raffreddore è passato.

Quindi è necessario introdurre un nuovo indirizzo: si assumano partecipazioni dirette azionarie nella Fiat (la strada si trova sia direttamente dalle banche che possiedono titoli Fiat, sia dal mercato dei piccoli azionisti), si rimettano al lavoro quei dirigenti e tecnici addetti alle progettazioni ed alle innovazioni ora inattivi e posti in cassa integrazione, si impostino nuove produzioni concorrenziali; si portino al massimo rendimento le capacità produttive dei cinque stabilimenti che la Fiat ha in Italia (Mirafiori-Torino; Atessa-Chieti; Melfi-Potenza; Cassino-Frosinone; Pomigliano-Napoli) e si facciano tutti lavorare quei lavoratori che oggi sono inattivi ed in cassa integrazione. I soldi di quest’ultima vengano impiegati per finanziare e non per assistere.

A chi intende obiettare che tale tipo di interventismo è in contrasto con le regole imposte dall’UE rispondiamo che esse, come tutte le regole di questo mondo, possono essere sospese di fronte alle emergenze quando ne va di mezzo la vita di migliaia di lavoratori italiani e quindi europei, e l’avvenire non solo delle loro famiglie ma anche di tutto il Paese nel quale essi vivono e intendono restare perché è la loro Patria ed in essa vi hanno non solo gli affetti passati ma anche le speranze future

Diversamente non potrà non essere ricordato il monito secondo il quale mentre il lavoro ha una Patria, il capitale non ne ha nessuna.

Le conseguenze allora potrebbero essere esiziali per l’avvenire dell’UE.

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