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da Il Giornale d’Italia

Luciano Garibaldi ci fa da guida nei luoghi in cui avvennero gli assassinii del Duce, di Clara Petacci e dei gerarchi fascisti

Fiumi di parole sono stati scritti nel corso dei decenni che ci separano da quel 28 aprile 1945 sulla morte di Benito Mussolini. Lo scorso anno il nostro Giornale d’Italia pubblicò un lungo speciale dedicato a quei fatti, tentando di districare la matassa delle menzogne accumulate nel tempo. Questa volta proponiamo ai nostri lettori un viaggio nei luoghi in cui si consumarono gli omicidi (si, omicidi) di Benito Mussolini, Claretta Petacci e dei gerarchi fascisti. Questo speciale è completato da un video che il lettore può visionare nella relativa sezione del nostro portale.

Abbiamo incontrato, in questo nostro viaggio nel tempo, alcune persone che ci hanno reso la loro testimonianza: quella, umana ed affettiva, di Edda Negri Mussolini, figlia di Anna Maria e nipote di Benito; quella dello storico, dongologo, saggista e giornalista Luciano Garibaldi, che ci ha accompagnate nei “luoghi dell’epilogo”. Quella infine di un sacerdote, don Luigi Barindelli, parroco di Mezzegra, che ci ha raccontato quei giorni svelandoci alcuni particolari interessanti.

Il nostro viaggio comincia a Milano, dove Luciano Garibaldi viene a prenderci in stazione. Lo storico è una persona molto amabile, un gentiluomo d’altri tempi, la sua disponibilità e la sua competenza sono doti rare da trovare oggi. In macchina percorriamo la strada che ci porta verso il lago di Como, durante il tragitto commentiamo insieme quei giorni del 1945, che portarono ad una delle scene più feroci della nostra storia patria, probabilmente la peggiore: piazzale Loreto. Il solo nome di questo luogo evoca immagini bestiali, è il luogo simbolo della furia cieca che annebbia la ragione, è l’immagine più brutta di questa Italia, di tutta la sua storia, la pagina più truce, la più vergognosa. “Quelle immagini non riesco a vederle – ci dice Edda Negri Mussolini, parlando del vilipendio del cadavere non solo di suo nonno ma anche degli altri fascisti, oltre che di Clara Petacci – ho visto il corpo in documentari, nella cassa, piegato … ma non mi fanno impressione quanto le immagini di piazzale Loreto”.

Nel nostro viaggio verso Giulino di Mezzegra  Luciano Garibaldi ci racconta di quando il Duce fu portato dai partigiani, dopo la sua cattura, a Brumate, ma giunto sul posto la barca che avrebbe dovuto essere lì ad attenderli non arrivò: “Sarà successo qualcosa – dice lo storico – non si saranno messi d’accordo bene, ed è in quel momento preciso che il capitano Neri disse che li avrebbe portati a casa De Maria. I De Maria erano dei suoi amici di famiglia, lì decisero di portare Mussolini e Claretta, a Bonzanigo. Così da Moltrasio tornarono a Bonzanigo dove giunsero alle 3 di notte del fatale giorno 28″.

Il capitano Neri, scomodo testimone di quei fatti, sarà assassinato anche lui, a cose fatte. La sua fidanzata, la partigiana Gianna, con lui in quelle ore, farà la stessa brutta fine. Una vicenda orribile della quale abbiamo già relazionato ai nostri lettori.

Il nostro viaggio continua, nel tragitto Garibaldi ci dice altre cose, intavoliamo il discorso del tradimento tedesco nei confronti del Duce: “L’ordine venne dato dal generale Wolff – dice il nostro accompagnatore – al capitano Feilmeier, o Sheilmeier, che poi non si è mai riuscito a ritrovare perché non si sa nemmeno come si chiamasse esattamente. Uno scrittore tedesco, Erich Kuby, scrisse un libro molto, molto documentato, che si intitola proprio ‘Il tradimento tedesco’, dove racconta la storia di questa colonna della contraerea tedesca, una cinquantina di camion, ai quali si accodarono tutte le macchine dei gerarchi che seguivano Mussolini. Mussolini quasi per proteggerlo fu fatto salire su un autoblindo e poi fu fatto vestire con una divisa tedesca, per evitare che venisse riconosciuto dai partigiani: era tutta una messinscena”.

“Proprio lì, a Mezzegra, aveva una villa Sir Henderson – dice ancora Garibaldi -che era il proprietario della Cucirini Cantoni ed era un grande amico di Churchill. Ed era il fratello dell’ambasciatore inglese a Berlino, Sir Neville Henderson. Sir James Henderson aveva la sua villa proprio a poche decine di metri dal punto dove poi Mussolini sarà ucciso, quindi è chiaro che aveva anche un appuntamento lì. Appuntamenti mandati tutti a monte, gli inglesi che lui sperava di incontrare non si sono presentati. Si sono presentati dopo, a cose fatte. L’importante era farlo tacere, lui e Claretta dovevano tacere”.

Arriviamo a Bonzanigo, casa De Maria è sempre lì, è stata restaurata ma conserva ancora quell’alone di tragedia che traspare dalle foto ingiallite che all’epoca fecero il giro del mondo. Di fronte, al di là dell’incrocio di via del Riale, c’è la casa da cui Dorina Mazzola disse a Giorgio Pisanò di aver visto l’assassinio di Mussolini e della Petacci. “Direi che è una conferma al racconto di Bruno Giovanni Lonati – dice Garibaldi – Dorina Mazzola li vide lì, sulla strada: due uomini che sparavano uno a Mussolini e l’altro a Claretta. È abbastanza verosimile che sia accaduto qua, la mattina del 28, verso le 10 – 10,30, come ha sempre raccontato la Mazzola e come risulta dall’autopsia, e non alle 16,30 …”.

Ci guardiamo intorno, mentre la macchina percorre  la strada panoramica che costeggia il lago, è incredibile che un luogo tanto bello sia stato teatro di tanto orrore.

Come fucilarono due cadaveri

La messinscena di Villa Belmonte e la testimonianza del sacerdote: “Davanti a quel cancello c’era un quarto uomo”

Giungiamo davanti al cancello di Villa Belmonte, dove secondo la vulgata ufficiale – ormai evidentemente sbugiardata persino dalla scienza – vennero assassinati il Duce e la Petacci e dove in realtà – lo dicono le prove – vennero fucilati due cadaveri: “Tre testimoni, tre racconti diversi: non torna – dice ancora lo storico – Tre racconti della presunta fucilazione fatti dal “colonnello Valerio”, cioè Walter Audisio, Aldro Lampredi (“Guido”) e Michele Moretti (“Pietro”): questi secondo la vulgata ufficiali furono i tre fucilatori di Mussolini. Audisio, nel suo racconto prima pubblicato sull’Unità nel 1947 e poi in un libro, disse che Mussolini balbettava, tremebondo, e disse ‘Ma, ma, signor colonnello’. Aldo Lampredi nel memoriale che scrisse e che lasciò a Cossutta, e che Cossutta incredibilmente e misteriosamente tenne rinchiuso in un cassetto per la bellezza di oltre trent’anni, e lo rese noto  nel 1996 sull’Unità – guarda caso dopo che era uscito il mio ‘La pista inglese’ nel quale sostenevo che Mussolini era stato ucciso non qua ma sotto al casa dei De Maria e dagli inglesi – dice che Mussolini si aprì la giacca e disse ‘Sparate al petto!’. Ma allora, balbettava tremebondo o disse ‘sparate al petto’? e poi la cosa più clamorosa è sull’intervista che Michele Moretti rilasciò a Giorgio Cavalleri, che è un  illustre storico comasco, stimatissimo sia da destra che da sinistra, e in cui disse che Mussolini prima di ricevere la scarica alzò la mano e gridò: ‘Viva l’Italia!’. Ma insomma, mettetevi d’accordo! Tre cose così diverse quando c’è un episodio fondamentale della storia italiana”.

Le telecamere tornano sulla nipote del Duce: “Con tutto quello che è stato – di Edda – posso immaginare tanti forse che erano arrabbiati con tutto quello che era il Fascismo e forse il nonno, però avere il rispetto … perché comunque erano delle persone e questa, questa è una cosa che mi dà dolore”.

Luciano Garibaldi ci porta da don Luigi Barindelli, parroco di Mezzegra, anche lui ci parla a lungo: “Vincifori era il fotografo del paese, mi ha dato la lastra della cosa che ha fatto della camera e le stampe dell’esterno e del cancello, però i negativi li aveva persi. Mi raccontò che la foto esterna della casa e quella del cancello le ha fatte il girono stesso o il giorno dopo, con una 6×9, però mi disse che non gli diedero il permesso di entrare nella stanza, glielo diedero quattro giorni dopo e in quella foto si vede la camera bella pulita, il letto fatto bene, la cassapanca con sopra la tovaglietta … è la foto ufficiale. Perché gli impedirono di entrare subito? Perché c’era qualcosa da nascondere, penso. Questa è la foto della camera, molto in ordine, quello che fa specie è che lì sulla cassapanca c’è pane … tutto quello che coincide con il racconto che hanno fatto loro, che mangiò pane, salame… mentre dall’autopsia risulta che non aveva mangiato niente, Mussolini. E questa è la prova che è una messinscena, che è stata messa lì apposta quella roba. Questo è un interrogativo comunque. E poi l’altra cosa che mi domando sempre … ma perché al cancello di Villa Belmonte e senza testimoni? I gerarchi li fucilarono a Dongo in piazza, e lì anzi radunarono la gente per farglieli vedere, qui invece bloccarono le strade, per non far vedere niente a nessuno. Ormai il cancello è passato alla storia, ma che bisogno c’era dalla casa di venire qui? Perché non fare venti metri, visto che non c’era nessuno e bastava chiudere due stradine? Perché? Per andare lontano da là. Ho sempre chiesto al Pisanò: a chi volevano far vedere la scena? Perché fare un chilometro e venire fin qua? Forse una ragione ci potrebbe essere.

Non è ancora stato pubblicato un lavoro di due ricercatori svizzeri dilettanti. Essi sono entrati nell’archivio della CIA e hanno trovato una foto scattata quel giorno lì. Sulla foto ci sono insieme i tre partigiani insieme a un personaggio molto distinto, alle loro spalle si vede una macchina con la macchina consolare della Svizzera. Con la targa sono risaliti al personaggio che aveva la macchina: era un colonnello americano mandato a Lugano come civile, e aveva l’incarico di distribuire gli aiuti ai partigiani. Quel giorno lì era qui. Se è venuto è perché voleva vedere se era stato fatto quello che si doveva fare. Perché a quanto pare sia gli americani che gli inglesi avevano interesse che il Duce finisse lì, e per fargli vedere la scena più solenne li portarono lì”.

Pisanò offrì 30 milioni a un partigiano per farsi raccontare tutto, gli rispose: “preferisco campare”

Da Bonzanigo a Dongo, una scia di sangue e di orrore

Sulla balaustra del lungolago ancora sono visibili i segni lasciati dai proiettili. In quelle acque trovò la morte anche Marcello Petacci

“I due ricercatori mi dissero che avrebbero pubblicato le loro ricerche – dice ancora don Luigi – poi non so se il libro è uscito. Anche quella foto è fatta dal Vincifori. Mi dissero che c’era anche la firma dietro. Vennero lo scorso anno a parlare con me. Mentre il professor Villani, che è stato qui diverse volte e ha chiesto tante volte di accedere all’archivio del Partito Comunista a Roma e non gli hanno mai dato il permesso, e lì qualcuno sa. Poi se ne sono dette tante, la storia che fu visto dalle donne che erano al lavatoio … quando venne qui il professor Villani andò a trovare l’Eralda, che era lì e che ora è ricoverata, a chiedere informazioni, e lei disse che avevano visto queste persone passare e uno di loro non camminava, lo tenevano su in due. Ma loro non avevano capito chi era. Quindi se lo tiravan dietro perché era già morto. Però le testimonianze ritardate sono sempre influenzate da quello che si disse dopo … un’altra data che ricordo è il 25 luglio, ero in battello e quando arrivò la notizia che era stato arrestato Mussolini ho visto tantissima gente togliersi il distintivo e metterselo in tasca …”.

Gli chiediamo perché tanta gente, ancora oggi, sembra aver paura di parlare. “Lo so, è così, forse pensano che porti danno, non so. All’epoca c’era il terrore, oggi non più. Forse deve morire una generazione affinché se ne parli”. Interviene Garibaldi: “Io riuscii a far parlare un testimone, promettendogli – e mantenendo la parola – che non avrei fatto mai il suo nome, infatti lo citai come ‘F.D.’, e forse è ancora vivo. Allora era un ragazzo di 17 anni e guidava la macchina anche se non aveva la patente per portare la Gianna avanti e indietro, mi testimoniò che la Gianna era sempre accompagnata da una signora inglese di circa 45 anni, e da un signore vestito da alpino, che era quello di cui parla Bruno Giovanni Lonati nel suo racconto, dicendo che avevano l’incarico di osservare uno vestito da alpino che gli avrebbe mostrato dov’era Mussolini, dunque a casa dei De Maria. Trovai l’appoggio al racconto di Lonati molti, molti anni dopo”.

“Pisanò era andato da uno di quei partigiani e lo aveva convinto a parlare in cambio di trenta milioni. Quando andò su lui gli disse ‘preferisco campare': ecco, questo la dice lunga” conclude il sacerdote.

Percorriamo la strada che fu battuta della colonna tedesca, vediamo Musso e il luogo in cui fu fermata dai partigiani e dove il Duce fu poi preso. “Il comandante tedesco andò in macchina fino a Colico per fare la trattativa, lì gli fu detto di lasciare lì tutti gli italiani e poi di andarsene. A Musso i tedeschi hanno consegnato in mano ai partigiani tutti gli italiani, tenendo Mussolini e mettendolo su un camion della colonna”.

Eccoci a Dongo, il lago è sempre lì immobile. La balaustra è stata restaurata di recente, tutta tranne un pezzo, quello contro cui vennero fucilati i “quindici” in quel 28 aprile 1945. Nel ferro ancora sono ben visibili i colpi lasciati dai proiettili. “Siamo sulla ringhiera della piazza di Dongo dinanzi alla quale sono stati fucilati i cosiddetti quindici gerarchi della RSI. La prima domanda: perché fucilarli qui e non in piazzale Loreto, come era stato deciso in un primo momento, quando si era detto: portiamo Mussolini e 15 suoi gerarchi e li fuciliamo dinanzi al popolo milanese per vendicare i nostri compagni trucidati un anno prima. Seconda contraddizione: perché fucilare qua i quindici ma non Mussolini. Perché Mussolini andare a fucilarlo due ore dopo a Giulino di Mezzegra? Perché lo avevano trovato morto, ecco perché poi procedettero alla fucilazione qui e poi fecero credere alla gente che sarebbero andati a fucilarlo lì. E invece andarono a fucilare due cadaveri, perché Mussolini e la Petacci erano stati uccisi già la mattina da agenti britannici mandati da Churchill. Questa è la verità, purtroppo. Tra l’altro qui vennero fucilati uomini che non c’entravano niente, il capitano Calistri aveva chiesto un passaggio. Hanno ammazzato un impiegato del ministero, Nudi, per esempio, un vecchio giornalista che non c’entrava niente. Dovevano fare quindici, e questo una logica seppure perversa ce l’ha. Dovendo fare quindici, come i partigiani uccisi, ma allora non capisco perché sedici, perché diciassette, perché la Petacci? Perché quando arriva qui il colonnello Valerio dice ‘Benito Mussolini a morte! Claretta Petacci a morte!’ e il nome della Petacci non c’era in questo elenco. Ce lo mise perché li aveva già visti morti e doveva dire che era condannata a morte anche lei. Oramai queste cose sono puerili addirittura, insistere a negarle è veramente folle. Da quella finestra – dice ancora Garibaldi indicandoci l’Albergo Dongo, proprio sulla piazza – i figli di Marcello Petacci videro il padre massacrato dalla folla, gettarsi nel lago ed essere finito con una scarica di mitra, lo videro i piccoli  Benedetto detto Benghino e Ferdinando, ma quest’ultimo aveva solo tre anni e se la cavò, Benghino invece, che aveva sette anni, non poté mai dimenticare questa scena terribile, uscì di senno e non riuscì a sopravvivere. Marcello Petacci poi non c’entrava assolutamente niente”.

Piazzale Loreto, la morte della ragione

C’è una lapide in memoria dei partigiani uccisi nel ’44, nemmeno una riga per i martiri fascisti del ’45

La tappa successiva è piazzale Loreto a Milano: “Questa è la lapide che ricorda i 15 partigiani che erano stati fucilati qui il 14 agosto del ’44 e per vendicare i quali il comando CVL aveva deciso di fucilare 15 gerarchi e Mussolini. L’ordine era di portarli qua vivi e di fucilarli qua. Ordine che non poté essere eseguito perché come dicevamo Mussolini era stato già ucciso, non da loro ma dagli inglesi. Chi viene qua non capisce niente, però se gira dietro vede i nomi dei partigiani che, c’è scritto, caddero per la libertà. Indubbiamente furono dei martiri, ma degli altri 15 martiri non esiste più nemmeno il ricordo. Questo è il luogo in cui era il distributore di benzina a cui vennero appesi i fucilati, qui la folla insozzò i cadaveri in quell’episodio vergognoso della nostra storia, interrotto perché ad un certo punto il cardinale Schuster si oppose. Vennero così gli americani con le jeep e misero fine a questo scempio. Sempre in questa piazza venne ucciso Achille Starace. Fu sorpreso mentre faceva una camminata con la sua tuta, era malato, fu riconosciuto e portato qua e fucilato davanti ai cadaveri appesi”.

“Non era facile per la nonna raccontare tutto questo – dice ancora Edda – però era una donna forte ed intelligente quindi riuscì a fare anche questo, a raccontare quello che era stata tutta la sua vita e anche l’ultimo periodo non facile perché non fu facile da quando morì il nonno a quando le fu restituito il corpo e poi ancora fino alla sua morte”.

Da Musocco  a Predappio

Il Campo X, dove riposano le spoglie dei caduti della RSI. Il Campo XVI, da dove gli uomini di Leccisi trafugarono la salma del Duce nel ’46

Musocco, il Cimitero. Siamo al Campo X, dove riposano i caduti della Repubblica Sociale. Le tante croci sfilano davanti ai nostri occhi. Intenerisce un trenino di legno ed un ciuccio da neonato sulla tomba di Luisa Ferida, che quando fu fucilata era incinta. Ci sono gli eroi, le Medaglie d’Oro, c’è Barracu, c’è Borsani, ci sono i federali uccisi dalla guerra civile, c’è il capitano Visconti, c’è Nicolino Bombacci, sono tantissimi. Una croce sul fondo è dedicata a tutti loro, con un pensiero speciale per quelle tombe che non hanno un nome: sono i repubblicani di Mussolini rimasti ignoti. “Il Campo X del Cimitero Maggiore di Milano è un esempio di alta e grande civiltà, del quale va dato atto all’Associazione dei Combattenti e Reduci della Repubblica Sociale Italiana – dice Luciano Garibaldi – di Milano, che ha creato questo Campo, ha dato sepoltura a tantissimi Combattenti, metà dei quali sono ignoti, non identificati. Tra i caduti qui sepolti ci sono nomi illustri, penso a Carlo Borsani, eroe, Medaglia d’Oro al Valore Militare, assassinato vigliaccamente dopo il 25 aprile, e a tanti altri come lui. È tenuto molto bene ed è un  buon segno che consente a chi ama veramente la patria di commuoversi quando è il momento.

Una grande rosa bianca adorna il Campo 16, dove il corpo di Mussolini venne nell’aprile ’46 dissotterrato dagli uomini di Domenico Leccisi per sottrarlo agli insulti di cui ancora era vittima. Passiamo anche al Campo 9, dove Renzo Zaccaro ci ha raccontato di aver seppellito il Duce, Claretta ed Achille Starace nella tarda serata del 29 aprile 1945.

“Si è dovuta rimboccare le maniche – continua Edda parlando della nonna Rachele – rifarsi una vita. Non è facile. Ha avuto tante tragedie nella sua vita. Prima la grave malattia di mia madre a soli sette anni, poi la morte di Bruno, tutto quello che è stato tra l’Edda e Galeazzo, la storia del nonno, della Petacci, la morte di mia madre. Sono sofferenze che segnano eppure diede a me e a mia sorella la forza di vivere ed andare avanti. È questa l’ammirazione che ho per la nonna”.

L’ultima tappa del nostro viaggio è Predappio, la cripta in cui Benito Mussolini riposa con i suoi familiari. Edda bacia quelle spoglie, porta il suo sa luto a sua madre, a suo padre, ai suoi zii, ai suoi nonni. Sono trascorsi settanta lunghi anni da quel 28 aprile del ’45.  Il libro con i pensieri degli italiani che vanno a migliaia in pellegrinaggio a Predappio è sempre lì, davanti al sarcofago che ospita le spoglie di Benito Mussolini. Vi sono migliaia di pensieri.

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