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Nel 1983, quando, nel mio libro «Mussolini e il Professore», resi noto per la prima volta il progetto di Costituzione di Carlo Alberto Biggini, grande fu l’interesse tra i politologi e i costituzionalisti, ed oggi quel prezioso documento potrebbe tornare d’attualità nell’ambito della riforma della nostra Costituzione, argomento sempre all’ordine del giorno. Biggini, quarantenne ministro dell’Educazione Nazionale, che aveva seguito Mussolini al Nord non per fedeltà al neofascismo, ma per fedeltà personale al Duce, ricevette l’incarico di redigere la costituzione della RSI dal Consiglio dei ministri del 24 novembre 1943. Il 12 settembre precedente, Mussolini era stato liberato dai tedeschi sul Gran Sasso. Il 23 settembre era stato costituito a Roma il primo governo della RSI. Il 27 era stata annunciata la Costituente e il 14 novembre erano stati approvati i «Diciotto punti di Verona», ossia la «Carta sociale» del nuovo Stato. Fu in quel Consiglio dei ministri del 24 novembre che lo «Stato fascista repubblicano d’Italia» (come si era chiamato fino ad allora) assunse la denominazione di Repubblica Sociale Italiana, e Biggini venne incaricato di redigerne la Costituzione con l’impegno di consegnarla al Duce «entro il 15 dicembre». Il giovane, ma già celebre giurista (aveva contribuito in maniera rilevante alla stesura del Codice Civile tuttora vigente) ebbe dunque poco più di due settimane di tempo per elaborare il documento. Lavorò notte e giorno, ininterrottamente, trasfondendo nei 142 articoli del testo la sua passione civile e soprattutto la sua cultura, che possiamo definire ispirata alla dottrina sociale della Chiesa, non meno che la sua formazione liberal-democratica, ereditata dai suoi maestri Giuseppe Rensi a Genova, nonché Gioele Solari e Francesco Ruffini a Torino (gli stessi di Norberto Bobbio). La storia ci dice che l’esame del documento fu rinviato allorché, il 18 dicembre di quel 1943, il Consiglio dei ministri decise che l’Assemblea Costituente sarebbe stata convocata dopo la fine della guerra. Mussolini mise nella borsa quelle 52 cartelle dattiloscritte (che quarant’anni dopo, vedranno la luce grazie alla disponibilità della famiglia Biggini, la vedova del ministro, Maria Bianca, e il figlio Carlo, e al loro amore per la storia e la cultura), se le portò a Villa Feltrinelli, dove abitava, le lesse e le rilesse, in alcuni punti le modificò con la matita blu, ed infine le riconsegnò all’autore con una sua lettera di approvazione. Ciò autorizza lo storico ad affermare che quella era la visione dello Stato che aveva in mente Benito Mussolini, da poco, e amaramente, uscito da un’esperienza totalitaria durata vent’anni. In estrema sintesi, una Repubblica presidenziale, così come molti oggi auspicano per l’Italia appena entrata nel terzo millennio. Ma il presidente della Repubblica non sarebbe stato eletto direttamente dal popolo, come accade negli Stati Uniti o in Francia, bensì da un’Assemblea costituente da rinnovarsi ogni sette anni (appunto per procedere all’elezione del capo dello Stato) e a sua volta eletta dal popolo, in ragione di un membro per ogni 50.000 abitanti (in pratica mille costituenti), quale «espressione di tutte le forze vive della Nazione». Tuttavia, non rappresentanti dei partiti, dunque di differenti e contrapposte ideologie politiche, sarebbero stati i costituenti, bensì «rappresentanti dei lavoratori (imprenditori, operai, impiegati, tecnici e dirigenti) dell’industria, dell’agricoltura, del commercio, del credito e dell’assicurazione, delle professioni e arti, dell’artigianato e della cooperazione». Accanto ad essi, sarebbero stati eleggibili «gli ex combattenti, in particolare i decorati e i volontari», i «famigliari dei Caduti», gli «italiani all’estero». Questa l’élite della Nazione alla quale pensava Biggini. Vi sono altri aspetti di modernità nella Carta Biggini. In una nota esplicativa del suo documento, egli scriveva di aver voluto configurare «un sistema capace di annullare i privilegi e di liberare le masse dal problema della ricerca del lavoro, che è l’autentica forma di asservimento del proletariato alla borghesia». Biggini pensava che «andare incontro alla libertà delle masse non significa soltanto, come crede o finge di credere il vecchio liberale, concedere alle masse i diritti di libertà della borghesia, bensì concedere, in via preliminare e come presupposto di ogni altra libertà, il diritto al lavoro e la parità delle posizioni iniziali per la lotta della vita. Il quale presupposto implica tutta un’altra serie di presupposti che si chiamano economia programmata, indipendenza economica della Nazione, vincolo dell’iniziativa privata, trasformazione del diritto di proprietà, e, sul piano internazionale, ridistribuzione delle ricchezze nel mondo». Detto in parole povere, una economia di mercato nella quale però il lavoratore non debba soccombere di fronte all’inesorabile e spietata legge del profitto e nella quale i tanti non siano condannati a fare la fortuna dei pochi. Ed una economia attenta ai problemi internazionali. Sembra di riascoltare Papa Wojtyla, quando, durante la commemorazione del cinquantesimo anniversario della Fao, affermò solennemente che «la povertà e la malnutrizione di milioni di persone sono il risultato di ingiusti criteri nella distribuzione delle risorse, e di politiche protezionistiche che difendono i grandi gruppi affaristici». Assolutamente qualificante la parte dedicata al «diritto al lavoro». La nostra Costituzione repubblicana, all’art.4, recita: «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro». Dunque, da una parte abbiamo (ed è la norma vigente) «riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro». Dall’altra (ed è la Carta Biggini) «garantisce ad ogni cittadino il diritto al lavoro». Sembra una piccola differenza, ed è invece enorme. «Riconoscere» attiene alla sfera delle intenzioni, dei buoni propositi. «Garantire» attiene alla sfera dei fatti. Di destra o di sinistra la visione di Carlo Alberto Biggini? Oggi è di moda, su questi due termini, una abbastanza oziosa e superficiale discussione. Non vi è dubbio che, se per Destra s’intende progredire nel rispetto dell’uomo, cancellare – ma senza violenza – ciò che nei rapporti economici vi è di ingiusto (nel senso di squilibrato a favore di una parte soltanto del contratto sociale), allora certamente la Costituzione di Carlo Alberto Biggini non è di sinistra, ma è una perfetta anticipazione pratica, probabilmente una primogenitura, del concetto di «Destra sociale». Peraltro, non può essere considerata di destra se restiamo ancorati a quegli stereotipi che identificano la Destra nell’ottusa conservazione di privilegi e sinecure ottenuti senza merito o magari con la frode e la corruzione. Spesso accade che ognuno, a seconda della sua militanza, o anche semplicemente dei suoi sentimenti, tenda a demonizzare l’avversario, attribuendogli una vocazione al male ed etichettandola con una definizione. Nel caso di Carlo Alberto Biggini, la spinta all’equità e il tentativo di promozione dell’uomo appaiono così evidenti da consentire di scavalcare la tradizionale e, per molti versi, superata divisione tra due opposte concezioni del mondo.

Luciano Garibaldi aprile 2006

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